Il Pop Group è tornato. A 35 anni da “For How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder?” Ed è un avvenimento. Nella generalità dei casi, ritorni come questo propongono artisti inariditi, imbolsiti ed, in alcuni casi, addirittura svogliati, che fanno il compitino di testa e tecnica piuttosto che di cuore e furore.
Il tempo è passato anche per loro, sia chiaro, ed hanno pance belle gonfie da bevitori di birra e son ben passati i tempi di quando erano la nuova sensazione in città ed era sufficiente alzare la cornetta per uscire con Vivienne Goldman, Viv Albertine o Caroline Coon.
Comunque, quando sono entrati in studio, il miracolo si è compiuto, simile a Roger Daltrey/Tommy alla fine del film di Ken Russel, quando i suoi seguaci lo abbandonano e sconfessano e lui si getta nel lago e sembra affoghi, ma torna a galla e nuota con rinnovata vitalità.
Questi ragazzi hanno marchiato, con lettere indelebili, la storia della musica. E continuano a farlo.
Qui non troverete woodoo drums & tribal percussions. Nessuna traccia di free jazz con assoli dissonanti à la Albert Ayler, dilatati nella echo chamber di un produttore giamaicano. Nessun suono perso aggrovigliato nel funky cristallino e distaccato della Rickembacker. Non grappoli di note di pianoforte a pioggia su percussioni in lontananza.
L’album è stato realizzato grazie al crowdfunding, ma quando abbiamo saputo che la produzione sarebbe stata affidata a Paul Epworth (Coldplay, Adele, Florence & the Machine) abbiamo tremato.
Il disco è bellissimo, ma non geniale, che era lo standard a cui ci aveva abituato il Pop Group.
Le canzoni sono tutte formidabili ed è stata una sorpresa. Mark Stewart aveva dichiarato che si sarebbero distaccati dai lavori precedenti ed era un rischio.
Le liriche hanno perso l’urgenza disperata ed apocalittica dei precedenti lavori. La consapevolezza ed il disincanto conseguiti con la maturità hanno tolto i nostri dalla barricata, pur mantenendo una profonda critica socio-politica (il titolo dell’album è programmatico).
Non son più i testi con ideali altissimi e sogni pazzi, genialità e lunaticità, i tempi di quando Mark spaventava Rough Trade affermando che tutti potevano usare liberamente la loro musica, perché priva di copyright. I tempi degli innumerevoli benefits a favore di Amnesty International e delle cause più disparate. Di quando progettavano la tournée nella Cina comunista.
La prima traccia, “Citizen Zombie”, sembra uscita direttamente da uno dei dischi solisti di Mark Stewart. Ma si tratta di un episodio isolato.
Quando all’inizio di “Nowhere Girl” Mark canta “We are, we are…” ci si aspetta dica “time” ed invece dice “strong”, ma il gioco di rimando al primo disco è evidente e continua pure in “The Immaculate Deception” (dove una ragazza, all’inizio del pezzo afferma, in italiano “è la fine di ogni certezza”). Gli accordi della chitarra di Gareth Sager nelle battute iniziali di “Shadow Child” rimandano a Snow Girl di “Y”.
Gli sprazzi di jazz sono trascurabili, minimali e canonici. Il basso funky di Dan Catsis è , se possibile, migliorato, ma la batteria di Bruce Smith soffre di una produzione che l’ha soffocata, mischiandola a percussioni sintetiche qualsiasi.
Le canzoni risultano, nell’insieme, stupendamente compatte simili al monolite dell’inizio di “2001, Odissea nello spazio”.
La cifra stilistica del pop Group è immutata, con la voce straziata/straziante/effettata, le note prolungate al limite del drone della chitarra, il tappeto ritmico funky, le note isolato/lontane del pianoforte.
Se possiamo segnalare un difetto, il suono della batteria è troppo compresso e limitato. Sarebbe stata sufficiente una produzione creativa, affidata agli Orb, oppure al grande amico di Mark, Lee “Scratch” Perry, e saremmo tutti a gridare al capolavoro assoluto. Invece dobbiamo accontentarci di applaudire un disco formidabile, che si candida tra i migliori dell’anno.
Il Pop Group è un diamante di purezza assoluta, che nemmeno un produttore inadatto può offuscare. Non può essere addomesticato e la sua luce è immensa.
Comunque, massimo rispetto per Mark Stewart che ha affermato di aver sempre apprezzato il lavoro di Paul Epworth, che segue fin dai lavori realizzati quando era ancora un ragazzo.