
C’è un grande concept dietro questo lavoro e che è del resto facilmente deducibile già dal titolo. ‘Kubrick’ vuole chiaramente essere un omaggio a quello che è il cinema del grande regista newyorkese, scomparso oramai più di quindici anni fa e piaccia oppure no, una delle figure più influenti della cultura dello scorso secolo.
Il disco esce praticamente un mese dopo ‘Angels & Ghosts’, che rinnovava la partnership del duo di musica elettronica e sperimentale composto da Rich Machin e Ian Glover con il frontman dei Depeche Mode, la pop-star Dave Gahan. Una collaborazione fortunata e che veniva proposta nel segno di quella precedente con un’altra delle voci crepuscolari più popolari degli ultimi vent’anni, cioè quella di Mark Lanegan. I lavori, è evidente, oltre che riproporre le sonorità tipiche e d’avanguardia del duo, richiedevano comunque un certo rispetto della forma canzone, avendo in questo senso quindi delle finalità che potremmo in qualche modo definire ‘pop’. I dischi del resto sono sicuramente prodotti fruibili e che sono stati goduti, diciamo così, presso un pubblico non necessariamente interessato alla musica elettronica e sperimentale in senso stretto e hanno anche aiutato in questo a far ottenere una certa notorietà al duo.
Qui, è evidente, ci troviamo al cospetto di una cosa diversa. Sebbene sia riproposto un certo sound soul e gospel, che fa bene all’anima diciamo così, e che costituisce comunque uno dei marchi di fabbrica di questo duo, il disco è invero praticamente una proposta di temi ispirati ai vari film del regista e le cui tracce portano ognuna il nome di uno dei personaggi dei film di Kubrick: ‘Hal’, ‘Joker’, ‘DeLarge’…
L’esperimento, perfettamente riuscito, mi ha fatto pensare a un altro disco uscito quest’anno, cioè ‘Musique de film imaginé’ di sua maestà Anton Newcombe e con il quale il musicista di San Francesco praticamente proponeva delle composizioni di quelli che poi, liberamente ispirati al cinema francese, sarebbero dei veri e propri film immaginari. Che non esistono. Se non nella nostra mente. E questo proprio perché – semplicemente – esistono le musiche. Perché possiamo ascoltarne i suoni.
Si racconta che Sergio Leone abbia voluto girare alcune delle scene di ‘C’era una volta in America’ facendo ascoltare agli attori quella che era la colonna sonora e le musiche del film composte da Ennio Morricone. Non lo so se questa cosa sia vera oppure no, magari me la sono inventata così su due piedi, ma è indubbio che il contributo delle musiche e del suono in generale sia parte integrante, fondamentale della storia del cinema e questo sin dagli inizi, quando i suoni e i rumori dovevano comunque per forza immaginarli e magari le proiezioni erano accompagnate da delle musiche, persino eseguite da orchestre e musicisti direttamente dal vivo.
La differenza, ecco, in questo caso sta nel fatto che il processo è quello inverso. Le musiche del disco sono ispirate ai vari film della cinematografia di Kubrick e, se posso allungarmi in un’altra osservazione, le diverse tracce non appaiono di volta in volta legate a un solo segmento oppure film in particolare, ma sono invece un continuum. Come se tutto il cinema di Stanley Kubrick fosse in verità, significasse un solo grande concept cosmico e dal quale estrapolare di volta in volta dei contenuti sempre differenti. Che poi è probabilmente così che stanno le cose. Perché no.
Il genere è quello riconoscibile del duo. ‘Dax’ potrebbe benissimo essere una canzone cantata da Mark Lanegan (che secondo me del resto le cose migliori negli ultimi anni le ha fatte proprio con i Soulsavers), ‘Joker’ si configura come un arpeggio di chitarra elettrica che fa pensare a delle rivisitazioni dei vecchi temi western del genere’ spaghetti’, tipo qualche cosa fatta anche da Nick Cave e Warren Ellis tipo la colonna sonora di ‘The Proposition’. ‘Hal’, ‘Ziegler’, ‘Torrance’ (forse il momento più alto dell’intero disco) sono invece delle vere e proprie suite elettroniche dove regnano imperiosi degli archi che conferiscono al suono una tonalità necessariamente drammatica, eppure non priva di quelal vena schizofrenica, quella leggera pazzia che riscontriamo in alcuni dei personaggi del cinema di Kubrick e che ci invita ogni volta a una riflessione sulla natura del genere umano e su quella che è la società in cui viviamo. Un viaggio senza fine dentro noi stessi.