
La prima cosa che ti insegnano al liceo classico, la ricordo anche io che non sono stato affatto un buon studente, è che il greco classico ha le stesse radici e origini della lingua indiana antica, il sanscrito. Che poi starebbe a significare che di fatto queste popolazioni non solo parlavano originariamente la stessa lingua, quella che viene definita come lingua ‘protoindoeuropea’, ma venivano anche tutte dalla stessa patria originale, che poi sarebbe quella che i tedeschi hanno denominato ‘Urheimat’. Complesse e differenti tra loro sono le ipotesi proposte a partire dal XIX per quello che riguarda la localizzazione geografica di provenienza di questa popolazione. Tra queste quelle più celebri sono quella della ‘Teoria kurganica’ che vorrebbe gli indoeuropei originali dell’Anatolia e quella lì secondo la quale questi proverrebbero invece dall’Europa settentrionale. Ipotesi tra l’altro abbracciata dal nazismo all’inizio del XX secolo e con le note e tristi conseguenze ‘deviate’ che la storia degli ultimi cento anni ci ha insegnato.
Nel corso dei secoli che sono seguiti non sono comunque poi venuti a mancare punti di contatto tra il mondo europeo e quello indiano. In poco più di dieci anni, Alessandro Magno conquistò l’Impero persiano e giunse attraverso l’Asia Minore fino al Pakistan, l’Afghanistan, l’India e i confini della Cina. Alcune ipotesi suggestive vorrebbero che lo stesso Gesù, durante i suoi anni perduti, avesse viaggiato in India e quindi questo per sottolineare delle radici comuni tra il cristianesimo e la religiosità e il pensiero religioso e filosofico indiano.
È evidente, ne consegue, che se esistano radici culturali comuni, allora vi devono per forza essere anche tutta una serie di tradizioni in comune e che queste possono anche riguardare per forza anche la musica.
Possiamo ricercare anche questo tentativo di ‘ricostruzione storica’ nel lavoro e la produzione musicale di Shye Ben Tzur, musicista e poeta israeliano che ha sviluppato negli anni un profondo interesse per la musica tradizionale indiana e per la musica sacra dei sufi, il qawwali. Una poetica le cui radici affondano non solo nella storia dell’India e del Pakistan, ma le cui origini risalgono probabilmente alla Persia del VII secolo e la cui diffusione è dovuta principalmente all’adozione presso i mausolei Sufi e quindi anche alla religione islamica e la diffusione del pensiero e la ricerca mistica tipica di questa cultura, cioè quella dei sufi.
Scrittore e musicista talentuoso, Shye Ben Tzur ha attirato su di sé attenzioni a livello internazionale e che hanno valicato i confini della cerchia di interessati alla musica indiana e al qawwali. ‘Junun’, il suo ultimo disco, è uscito lo scorso novembre per l’etichetta Nonesuch Records e oltre che avvalersi della collaborazione della Rajasthan Express come band di supporto, vede la collaborazione di due giganti della musica rock britannica e che non hanno bisogno di nessuna presentazione, cioè Jonny Greenwood e il produttore Nigel Godrich. Come se non bastasse, aggiungiamoci che il making del disco (registrato nella suggestiva location del forte Mehrangarh nelle vicinanze di Jodhpur all’interno dello stato federato del Rajasthan) è stato oggetto di un documentario girato da Paul Thomas Anderson e premiato al New York Film Festival.
Basterebbe tutto questo e non ci sarebbe bisogno di altro per raccontare qualche cosa su questo disco e attirare l’attenzione di potenziali ascoltatori. Non fosse che, al di là delle partecipazioni importanti e delle attenzioni e riconoscimenti a livello internazionale, ‘Junun’ è innanzitutto un bellissimo disco e che può piacere anche a chi non è solito ascoltare musica diversa dal rock’n’roll oppure blues oppure semplicemente ‘pop’ e che anzi può essere l’occasione per riconoscere in queste sonorità evocative quelli che possono essere dei tratti in comune con la musica africana oppure quella mediterranea in una sorta di continuum geografico-musicale.
Facile, persino scontato pensare a Ravi Shankar e alle attenzioni e le speculazioni intellettuali e spirituali in generale a partire dagli anni sessanta e dai Beatles e i Rolling Stones di cui è stata oggetto l’India e non solo per la sua musica. In questo caso qui, se vogliamo, possiamo trovare tuttavia qualche cosa di più da quelli che potrebbero essere considerati oramai soliti tentativi e bizzarrie new-age e apprezzare invece delle composizioni sonore in bilico tra psichedelia e ambient, folklore e world-music, minimalismo in stile Philip Glass oppure Steve Reich, La Monte Young, Terry Riley e allo stesso tempo a un superamento oppure semplicemente qualche cosa di diverso da tutto questo e in ogni caso un patrimonio sonoro da scoprire, più che da riscoprire, e cui attingere per salvare la propria anima oppure almeno cercare di vivere meglio la nostra vita giorno dopo giorno.