
Quello del rock’n’roll costituisce più che un mito, una vera e propria fede religiosa e in quanto tale, come ogni scelta e percorso spirituale, questa prevede dei momenti di sublimazione alternati a quelli che possono essere dei periodi di buio apparente e che costituiscono invece quella fase determinante che potremmo definire di ‘ricerca’.
Ho trentuno anni, quasi trentadue, non ho una compagna, non ho amici e faccio un lavoro che non mi piace. Assumo dei medicinali per regolare lo stato del mio umore, regolo la mia esistenza secondo schemi fissi e in maniera ossessiva. Eppure credo. Credo in questo grande mito che si rinnova di generazione in generazione e che in quanto tale dà un senso anche alla esistenza di quelle anime solitarie e di chi non riesce a trovare se stesso.
Qualcuno ascoltava rock’n’roll perché si sentiva solo. Perché voleva essere, sentirsi qualcuno e allo stesso tempo parte di qualche cosa di più grande e ci riusciva solo in mezzo alla folla durante un concerto oppure ascoltando un disco di musica rock e solo così riusciva a salvare la propria anima e salvaguardare la propria esistenza.
Chi ha venduto la nostra generazione? ‘Who sold my generation?’ È la domanda che si pongono e ci pongono i Night Beats di Seattle, Washington, la band composta da Lee Blackwell, James Traeger e Jakob Bodwen che dal 2009 rimbomba attraverso le casse dei nostri stereo proponendo un suono che è un mix tra rhythm and blues, rock psichedelico e soul-garage.
Parliamo di una band che è già entrata nel cuore degli ascoltatori e che non avrebbe per questo bisogno di presentazioni. Non ha bisogno di presentazioni, così come bon ha bisogno di presentazioni il rock’n’roll, la cui divulgazione del verbo spetta innanzitutto alla musica, ma poi anche a tutto quello che ci gira attorno. Stiamo infatti parlando di qualche cosa che trascende il semplice ascolto. Parliamo di una vera e propria attitudine. Di un immaginario cui non attingere a piene mani, ma invece rimanerne praticamente invischiati. Come se colpiti da una specie di maledizione voodoo. Niente compromessi. Una volta che sei dentro e hai varcato la soglia, quella linea di confine, sei dentro, non puoi più tornare indietro.
Le canzoni di questo disco hanno quella impronta tipicamente garage psych tipica di un revival, l’ennesimo, che costituisce una specie di onda lunga che dagli Usa arriva fino all’Europa, il nostro continente e la cui eco si può sentire chiaramente in ‘No Cops’ (che fa pensare a un’altra band del genere, cioè i Black Rebel Motorcycle Club) oppure ‘Burn To Breathe’, ‘Egypt Berry’. Ma in questo disco, che alla fine dell’anno 2016 sarà sicuramente tra i miei preferiti, c’è di più. C’è quella musica blues che suonavano i neri nella prima metà del secolo scorso e, schiavi liberati ma non ancora liberi se non nello spirito, ci sono dentro sonorità tipicamente sixties (‘Bad Love’), c’è quella sensualità rock’n’roll di Mick Jagger e dei Rolling Stones. Ci sono visioni allucinate da eccessivo utilizzo di anfetamine tipico della tradizione psichedelica texana che va dai 13th Floor Elevators di quel genio maledetto che è Roky Erickson fino ai Black Angels (‘Last Train To Jordan’) per tenere sempre gli occhi aperti e vivere la propria vita al massimo mentre si guida la propria automobile a tutta velocità lungo le strade che spaccano a metà il grande continente nordamericano e gli United States of America. C’è quella voglia di esorcizzare la morte e tutte le proprie paure, la tristezza, quello spirito di ribellione che avevano Dennis Hopper e Peter Fonda e del mito di ‘Easy Rider’, quella forza tipica di Jack Kerouac e Neal Cassady e quella energia urlata da Allen Ginsberg. Quella di Kurt Cobain. Il loro mito non morirà mai e lo puoi sentire vibrare nella voce roca e nelle chitarre arrabbiate di questo disco ancora e ancora. Pure con tutte le sue contraddizioni, lasciatemelo dire: che paese, gli Stati Uniti d’America.