Recensire adesso di un disco uscito nel 1990, e ristampato nel 2015, può apparire fuori tempo massimo misurato con il cool thermometer? Ma neanche per sogno.
Signori, stiamo parlando di Loren Connors. Giù il cappello, tanto per iniziare.
E’ ormai un signore di mezza età, con la faccia mezza spiritata e mezza poeta maledetto francese, che se il diavolo lo incontra all’incrocio finisce che gliela vende lui l’anima. Ha passato la vita a suonare miniature chitarristiche in derive di angoli albeggianti, misteriosa chitarra sporca di reminescenze blues, jazz e poco rock. Riff sussurrati, quasi frantumati, come Loren si scordasse di suonarli e li lasciasse in sospeso a creare tensione ed eccitazione. Arte concettuale tesa a decontestualizzare il blues, frantumarlo per poi assembrarlo in soffi ultraterreni. La capacità di suonare il silenzio, quel silenzio, che una volta creato tra le corde della chitarra, è capace di catturare le note discrete ed erranti a formare i piccoli miracoli che riempiono i suoi dischi.
La Family Vineyard fa uscire questa ristampa che si può considerare un disco nuovo bello e buono. Prima di tutto, perché la musica ed i dischi di Loren Connors sono senza tempo. Audace ed essenziale in qualsiasi epoca ed in ogni circostanza. Inoltre l’originale era uscito per l’etichetta personale di Connors, St. Joan Records, in edizione fatta a mano, con tiratura 200/300 copie, che alcuni nemmeno si erano accorto fosse uscito. Inoltre aveva usato l’alias, che usò per qualche tempo per suonare dal vivo, di Guitar Robert.
“Blues No. 4” inizia con una melodia fragile che vede Connors muoversi sul manico, come usasse un bottle neck, sussurrando tutta la gamma dello strumento, note alte che contrastano quelle basse che sembrano tenere il broncio, perse nel mare di astrattismo indotto. Anela al rock’n’roll con variazioni talmente lievi che si notano a malapena. Relativa semplicità di note che mostrano il vibrato, o il modo in cui tutto il pezzo sembra traballare nel tempo.
Utilizzando solo una chitarra elettrica e un registratore a quattro tracce, Connors evoca l’essenza di un malconcio vecchio giradischi su cui suonare i 78 giri di Skip James.
Questi sette blues sono stati impressionati a seguito della visita alla mostra postuma dei “Dipinti Scuri” di Mark Rothko, una grande influenza ideologica e tecnica che Connors non ha mai nascosto. Rothko ha terminato queste opere poco prima di suicidarsi nel 1970 e la mission di questi blues sembra di voler vivere in mezzo a quegli stessi grigi squallidi e scuri, ma di non perdersi in loro, ma sopravvivere cantando la tristezza, senza annegare dentro l’angoscia così evidente nelle corde della sua chitarra.
Imprescindibile.