Lera Lynn – Resistor (Resistor Music, April 29, 2016)

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La prima stagione di “True Detective” ha ridefinito il canone del serial televisivo e Matthew McConaughey si è mangiato tutti gli attori coinvolti, con la sua recitazione underline alla Robert Mitchum, espressivo e tragico come James Dean, quasi a voler assestare un bel calcione al trono di sua maestà Marlon Brando. Quando mastica: “Io non dormo, sogno” il pur eccellente Woody Harrelson capisce che dovrà fare la spalla per tutti gli episodi che si dipanano lungo un sentiero che pare tracciato dal giovane James Ellroy.

La seconda stagione, con Colin Farrell e Vince Vaughn, è quasi altrettanto bella. Colin Farrell è un grande attore e regala un’interpretazione da urlo, ma è chiaro che Lera Lynn ci ha messo del suo nell’interpretare un tipo diverso d’intrattenitore da bar. Dipinge una cantautrice eroinomane, con un’anima talmente tormentata che sembra aver raggiunto un vicolo cieco, quasi morta dentro. Ha cambiato dozzine di acconciature, scavato occhi e guance esasperando gli zigomi con una tecnica vocale minimalista, procedendo per sottrazione nel tentativo di ammaliare la platea.

maxresdefaultPer definire il suo personaggio si è ricorso alla produzione e scrittura ultra stellare di T-Bone Burnette ed al talento di Rosanne Cash. Una volta entrata in quel giro di musicisti mi sarei aspettato avesse continuato in quella direzione ed invece per realizzare questo pugno di canzoni malinconiche non tradisce la collaborazione di lungo corso con l’altro musicista di Nashville, Joshua Grange, col quale co-produce il lavoro e col quale suona quasi tutti gli strumenti.

Così facendo, però, dissipa quasi tutta l’aura di tossicità maledetta, di glamour oltre i problemi quotidiani, di filosofia marcia a buon mercato che Black Rose, il suo personaggio, si era costruita nel corso dei cinque episodi.

leraLa musica è quasi sempre prodotta eccessivamente, con un orribile suono di batteria sintetico, talmente brutto e stridente che sembrano sbagliati sia i microfoni che il loro posizionamento. Un suono di batteria pessimo, quasi come quello di un qualsiasi album di Bruce Springsteen.

Le canzoni sono normali, come se ne sentono tante, ma si sarebbero potute interpretare seguendo la via tracciata da Burnette, sfruttando il carisma del personaggio televisivo, con batteria drogata, accordi scheletrici, spruzzate di woodoo sapiente ed arrangiamenti fantasma.

12970867_1100823733301865_2773031810582900978_o-2Invece tutto è convenzionale ed il risultato è un album trascurabile, ma che lascia intuire qualche possibile, interessante, sviluppo come quando i ritmi si fanno soffusi e malinconici e le pelli sono sfiorate dalle spazzole e Joshua Grange imbraccia una chitarra la cui cassa sembra costruita col legno delle foreste di Twin Peaks. Note erratiche, grondanti di eco, effetti twang memori della lezione di James Wilsey che, tuttavia, non riescono a salvare questo tentativo autoctono, con dinamiche apparentemente insulari, tese all’infruttuosa ricerca di un minimalismo sensuale. Transizione anelata, e parzialmente abortita, dalla tradizione americana verso un songwriting prettamente umorale ed etereo, lontano dal folklore, con testi che descrivono stati d’animo ed armonie che tradiscono un certo interesse per il jazz.

Un album non riuscito completamente, ma che lascia intravedere interessanti possibilità di sviluppo con un approccio vocale carezzevole e morbidezze suggestive contenute in una fisicità ipnotica, resa suggestiva dal modo in cui trattiene la propria forza.

Voto: 6,5/10

Schoolboy Johnny Duhamel

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