INLAND EMPIRE (David Lynch, 2006)

Inland Empire

«Harry, non ho idea di dove questo ci porterà, ma ho la netta sensazione che sarà un posto meraviglioso e insieme strano»

(l’agente Cooper in Twin Peaks, 1990)

Inland Empire del maestro Lynch è un film forse unico nel suo genere, che ti incanta e ti imprigiona come un mandala, come un itinerario sciamanico. Un film “assoluto”, un puzzle dissacrante come nient’altro, ironico, deflagrante, cattivissimo, sensuale e probabilmente al di sopra di ogni giudizio.

Ma DOVE inizia un film di Lynch?

Una “vecchia” regola ormai fissa dai tempi di “Eraserhead” vuole che dei film di Lynch non si capisca fondamentalmente nulla. Almeno non alla prima. Almeno, soprattutto, non in maniera completa, mai al 100%, mai univoca. Non mi sono mai piaciuti i film con lo “spiegone” finale e proprio la molteplicità delle interpretazioni possibili è ciò che per me rese “Mulholland Drive” e “Strade Perdute” capolavori assoluti, “esperienze” da godere senza troppi perché, quasi fossero dei trip personali di un artista impazzito e da compatire. Per cui le cose stanno così. Solo chi ha amato, o ama, il cinema di Lynch, può trovare in Inland Empire un’esperienza fondamentale e considerarlo l’ultimo tassello di una trilogia visionaria (dopo MD e SP).

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La definizione giusta potrebbe essere: film stratificato. Per i più potrà essere ostico (la durata è di 3 ore), la visione è disseminata di trappole (soprattutto visive) atte a far perdere letteralmente l’orientamento su quanto succede. Una marea di indizi e rivelazioni con un tale bombardamento di input che il cervello non ha il tempo di elaborare le informazioni e metterle insieme. Consiglio di prestare attenzione ai dialoghi senza lasciarsi incantare da quanto succede in video. Altrimenti la comprensione diventa impossibile. Tutto, ma proprio tutto, a livello di trama, viene “spiegato” nei dialoghi dei primi minuti, in maniera anche lineare. Bisogna concentrarsi solo su questo. Una volta fatto ciò, alla seconda visione potrete godere allo stesso tempo di immagini e dialoghi e approfondire la comprensione di questo vero e proprio trip psichedelico.

Inland Empire David Lynch
Una donna (una monumentale, struggente ed inquietante Laura Dern ) è coinvolta da un regista (Jeremy Irons) nel progetto di un film dall’atmosfera davvero misteriosa. La cinepresa si sposta continuamente tra paesaggi oscuri, desolati e desolanti con una gran quantità di immagini sporche, sgranate, mosse, fotografate apparentemente con poca cura. Insieme al marito e all’amante, subisce una serie di sdoppiamenti che sembrano portare a galla un’angoscia profondissima che dà linfa narrativa alla pellicola.

inlandempire_02Al tutto si aggiungono i “famosi” spezzoni, quasi gag, dei cortometraggi intitolati Rabbits, con protagonisti appunto dei conigli, un’ulteriore “altro” a cui sembra far riferimento il film (Alice nel paese delle meraviglie?) e dove la musica (di Angelo Badalamenti e di un musicista polacco di cui non ricordo il nome, ma dallo stile molto simile a quello di Ligeti, quello di “2001 : Odissea nello spazio”, …altro trip….) ha un che di fortemente satanico; delle risate registrate si inseriscono fra noi e i conigli come commenti inopportuni provenienti alle nostre spalle da una platea inesistente.

Come detto, è del tutto inutile descrivere la trama o dare una spiegazione lineare, perché il film, alla fine, si rivela un vero e proprio esperimento (o esperienza), in cui il regista cerca di far capire allo spettatore solo in minima parte cosa stia accadendo. Cerca di afferrarti e di fonderti all’attore, di farti provare le stesse emozioni che attraversano i suoi protagonisti, di mettere entrambi nello stesso tunnel d’angoscia e paura. Prende l’inquietudine, la dannazione, la fobia, il tormento e li rende cinema.

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Ed è proprio questo che affascina nel suo cinema e lo differenzia dai suoi colleghi. E potete star certi che la differenza è notevole. Davanti al Inland Empire si deve quindi abbandonare a priori ogni tentativo interpretativo con il già visto codificato da passate o presenti esperienze cinematografiche, perché un certo tipo di immagine potrebbe significare “un ricordo”, mentre quello che qui succede è “un sogno”.

Da vedere e soprattutto (qualora se ne esca indenni), da rivedere.

Vito Lippolis

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