
Sono sempre incerto quando ascolto un nuovo disco di questa band. Gli Indian Jewelry hanno uno stile loro tutto particolare, un mood che definirei allo affascinante e misterioso, ma allo stesso tempo kitsch. Radical-kitsch. Se dovessi fare un parallelo accomunerei questa band a una bellissima ragazza di cui sono innamorato e veste sempre di colore scuro e porta la frangetta. Bella e irraggiungibile e allo stesso tempo persino irritante nei suoi atteggiamenti così fatalisti e per il suo abbigliamento sempre sopra le righe. Alla fine ne sei incredibilmente attratto, ti piace, ma non capisci perché. Si potrebbe parlare di semplice attrazione sessuale, andando a ricercare così delle motivazioni in quella che sarebbe la natura più animale e primitiva dell’uomo, addirittura in quella che sarebbe la naturale predisposizione alla riproduzione. Ma mi conosco e so bene che non riesco a essere così naturale e spontaneo non solo in quelle che sono le mie esternazioni e il rapporto con il mondo che mi circonda, ma pure per quella che è la natura dei miei sentimenti e del mio pensiero.
Evidentemente allora ci deve essere qualcos’altro e che cose, dico io, se non quella volontà di sapere. Quella voglia di capire che cosa si nasconda dietro l’apparentemente imperturbabilità. Cosa si celi al di là di una frangetta oppure come in questo caso di venature così oscure, quasi dark-wave, eppure mescolate a quello che alla fine si traduce in un dream-pop ostentato e al limite del cattivo gusto.
‘Doing Easy’ è l’ottavo disco in studio di questa band di Houston, Texas, che piace agli appassionati di musica psichedelica e pure a quelli che ascoltano sonorità più easy tipo dream-pop, shoegaze oppure persino elettro-pop e elettronica. Possono piacere oppure no, ma è innegabile che questi ragazzi abbiano un loro stile e una loro classe tutta particolare. Qualche riferimento? Joy Division, Jesus & Mary Chain (‘Lovely Rita’), interpretrazioni esasperate, imperiosi giri di basso e chitarre taglienti alla Siouxsie & The Banshees (‘Vast Division’) e la solita vocazione indie-pop oramai diffusa a macchia di leopardo negli Stati Uniti d’America e in tutto il mondo occidentale.
Se dovessi parlare e spiegare quello che oggi si potrebbe definire pop post-moderno (‘Calling Calling’), potrei cercare di raccontarvi come si potrebbe sentire Mina in una storia di J. G. Ballard. Poi però ci penserei su e francamente lascerei perdere e vi direi di ascoltare direttamente questo disco. Infine vi rimandere alle parole del grande Milan Kundera, che oltre che descrivere bene questo disco e il concetto di ‘kitsch’, sono sempre attuali e riguardano in qualche modo nel complesso quella che è la società in cui viviamo, ‘Nel regno del Kitsch impera la dittatura del cuore. I sentimenti suscitati dal Kitsch devono essere, ovviamente, tali da poter essere condivisi da una grande quantità di persone. Per questo il Kitsch non può dipendere da una situazione insolita, ma è collegato invece alle immagini fondamentali che le persone hanno inculcate nella memoria. Un mondo dove la merda è negata e dove tutti si comportano come se non esistesse. Questo ideale estetico si chiama Kitsch. Il Kitsch elimina dal proprio campo visivo tutto ciò che nell’esistenza umana è essenzialmente inaccettabile.’ Chapeau, sipario.